District 9
La prima considerazione su District 9 che mi sovviene a pochi minuti dall’uscita dalla sala cinematografica è che chissà per quanto tempo ancora i film sugli alieni dovranno scontrarsi con Independence Day nell’immaginario collettivo del grande pubblico. In D9 non ci sono invasioni, ma gli alieni (ribattezzati gamberoni viste le loro fattezze) arrivano sulla Terra allo stesso modo in cui un barcone di extracomunitari può sbarcare sulle coste del Sud Italia. Il messaggio politico è chiaro e tondo, pure troppo. Se negli anni 50 bisognava sforzarsi un pochino per leggere nei mostri radioattivi il trauma per l’uso della bomba atomica di pochi anni prima e gli alieni cattivi erano i comunisti camuffati, qui la metafora è limpida e facile. Anche lo stile a metà tra l’inchiesta giornalistica e l’home video alla Cloverfield cerca di dare veridicità alla vicenda, spiazzando lo spettatore italiano da sempre abituato ad essere condotto per mano lungo la narrazione, spesso persino con la badante voce fuori campo. In sala è calato il gelo quando anziché ritrovarsi nella classica storia buoni-cattivi e frizzi e lazzi ci si imbatte in questa torbida storia di baraccopoli aliene e governanti troppo furbi e cinici, con bambini spiazzati e genitori imbarazzati. Probabilmente il battage pubblicitario ha (volutamente?) occultato la vera natura del film, lasciando intendere tutt’altro. Ma ogni tanto uno shock al coccolato pubblico italiano, abituato ai rassicuranti gamberoni che si siedono sulle poltroncine bianche di Porta a Porta, non può che far bene. Attendiamo l’annunciato seguito.



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